TITANIC EUROPA – Recensione, analisi e commento del libro di Vladimiro Giacchè.
Utilizzando la suggestiva metafora dell’inglorioso naufragio della Meraviglia delle Meraviglie, il TITANIC (non a caso un “trans-atlantico”), V. Giacché ribalta la narrazione mainstream sulla genesi e l’evoluzione di una crisi della quale ancora non si scorge la fine.
VLADIMIRO GIACCHE’ – Autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico.
Ha studiato nelle Università di Pisa e di Bochum (Germania) ed è stato allievo della Scuola Normale di Pisa, dove si è laureato e perfezionato in Filosofia. È dirigente di Sator, società specializzata in investimenti industriali, e presidente del Centro Europa Ricerche.
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Un evento epocale di crisi del sistema capitalistico nel suo complesso che ha avuto come conseguenza, non come causa, la speculazione sui titoli del debito sovrano nei Paesi periferici dell’area Euro, i cosiddetti PIIGS. Una crisi frutto di un intenso processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, che ha travolto e snaturato le storiche guarentigie macroeconomiche nazionali.
La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia è la malattia o solo un sintomo della crisi? Giacché pone in evidenza come il dilagare della finanza abbia ricoperto la molteplice funzione di mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi, puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva e di fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero. Tutto ciò ha certamente procrastinato, ma anche sicuramente aggravato, una catena di fallimenti bancari, imprenditoriali ed individuali e ha successivamente determinato una serie di disastri nella sfera pubblica ed internazionale tramite un capzioso processo di “socializzazione” e “statalizzazione” dei debiti privati.
Già si scorge inesorabile, quindi, la punta dell’iceberg che potrebbe condurre al definitivo naufragio dell’ambizioso processo di costruzione europea. Occorre cambiare rotta al più presto per evitare un naufragio che appare ineluttabile, non ascoltando “l’orchestra” che ostinatamente continua a suonare la stessa “austera” sinfonia. E’ necessario che ai popoli europei sia finalmente concesso di scegliere democraticamente la rotta da seguire, indicando un nuovo “timoniere”.
Ma quali alternative sono oggi percorribili? Quella di uscire dall’Unione monetaria o, addirittura, dai Trattati, si dimostra comunque particolarmente impervia sia per le “virtuose” economie del nord sia per i lavoratori del “vacanziero” sud del continente. Ma “questa” Unione Europea, ideologica e “totalitaristicamente” neo-liberista, non avrebbe alcuna chance neppure se ci fosse “più Europa” in un’Unione davvero “politica”. Il problema, infatti, è principalmente la qualità del progetto in essere, non le sue “dosi”, già purtroppo letali.
L’Autore analizza i fatti che hanno condotto l’economia europea ad essere contagiata dall’implosione finanziaria statunitense del 2008, ormai identificata nell’immaginario collettivo con il collasso di una delle maggiori banche d’investimento del mondo, la Lehman Brothers. Individuare le vere ragioni della crisi e comprendere la reale natura delle reazioni sistemiche riduce, infatti, il senso di impotenza di chi ne è stato vittima quasi fosse un ineluttabile castigo divino.
I fallimenti a domino dei maggiori istituti finanziari americani e mondiali, divenuti “fabbriche” di strumenti finanziari artificiosi e rischiosi (derivati, mutui subprime, ecc..), affondano le proprie radici nell’abrogazione del Glass-Steagall Act del 1933 operata dal Presidente americano Bill Clinton nel 1999, che determinò il superamento della rigida separazione tra banche di deposito e banche d’investimento introdotta in seguito alla Grande Depressione.
L’analisi di Giacché inizia comunque da fatti risalenti agli anni Settanta: il 1971 è l’anno della fine del gold-exchange standard, del sistema valutario internazionale imperniato sul dollaro e sulla sua convertibilità in oro, con le altre monete, a loro volta, ancorate al dollaro, in favore del pure dollar standard, trasformando cioè il dollaro in una moneta assolutamente fiduciaria e imprimendo un’importante accelerazione sulla strada della “finanziarizzazione” dell’economia.
Gli shock petroliferi, la deregulation con liberalizzazione dei flussi internazionali di capitali e l’abolizione delle restrizioni sugli investimenti finanziari imposti dopo la crisi del ‘29, determinano quindi il passaggio ad un nuovo tipo d’economia, sempre più liquida e meno controllabile, che non tarda a culminare già negli anni ’90 nello scoppio delle prime bolle finanziarie imputabili ad eccessiva creazione di credito, tra le quali sicuramente spicca il clamoroso default della Russia post-sovietica.
A causa di una serie di meccanismi profondamente interconnessi, la struttura di una crescita completamente fondata e dipendente dalla finanza ha cominciato a implodere nel 2007-8, insieme alla saturazione della domanda sul mercato immobiliare statunitense e all’insorgere di sempre maggiori sofferenze e insolvenze, provocando una repentina flessione dei prezzi che ha pregiudicato il valore delle garanzie costruite a tutela dei debiti.
E’ quasi ironico notare come questo nuovo approccio ideologico alla finanza, di stampo prettamente neo-liberista, si proponesse invece come sintomo e possibile cura di altre e molto più radicate criticità del sistema economico, cercando di mitigare le implicazioni regressive della compressione dei salari da lavoro, di sostenere i settori industriali caratterizzati da un eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda di mercato e di fornire opportunità di investimento più redditizie rispetto a quelle nell’ormai stagnante settore manifatturiero.
L’Autore, infatti, ci dimostra come la crisi economica sia stata determinata dall’insorgere di uno squilibrio di mercato dal lato dell’offerta, sopraggiunto per effetto, da un lato, delle ormai eccessive capacità produttive introdotte dal progresso tecnologico e, dall’altro, della riduzione deflattiva dei redditi reali da lavoro, e, di conseguenza, della capacità di acquisto di gran parte della popolazione. Già dagli anni sessanta gli investimenti nel settore manifatturiero dell’economia erano in forte declino in tutti i Paesi occidentali, a causa del calo del loro saggio di profitto. Ne consegue che, al calo della profittabilità degli investimenti produttivi, i capitali sono stati indirizzati verso la maggiore redditività offerta dai prodotti finanziari elaborati dal settore bancario.
La liberalizzazione dei flussi finanziari internazionali consente, inoltre, di trasferire la produzione all’estero e di realizzare investimenti dove sono garantiti maggior rendimento e minore tassazione, e ciò alimenta un’ulteriore competizione salariale tra i lavoratori dei diversi Paesi e tra regimi fiscali di fatto concorrenti in assenza di politiche di armonizzazione e convergenza regolamentare tra i diversi Stati. I governi, dunque, abbandonano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori di titoli di debito.
Si giunge infine all’instaurazione di un’economia fittizia priva di vincoli, basata sull’avida pretesa di fare soldi con i soldi e che rileva in proporzione 350:1 rispetto a quella reale. Il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come e più di prima. Ma il prezzo dell’incontrollato indebitamento viene comunque fatto pagare ai più deboli. Il salvataggio delle banche in crisi, secondo quanto rilevato dalla Bank of England nel 2009, è costato 14.000 miliardi di dollari. Un debito privato enorme ed insostenibile che è stato completamente inglobato nel bilancio pubblico degli Stati redivivi “salvatori” dell’economia e, di conseguenza, “socializzato” a spese dei cittadini e dei servizi e delle tutele sociali offerte dal welfare statale ai lavoratori e alla fasce sociali bisognose.
Il successo catastrofico dell’Euro è consistito, inoltre, nell’eliminazione del rischio di cambio ma, soprattutto, nel significativo abbattimento dei tassi di interesse. La moneta unica, mentre esaspera la specializzazione produttiva dei singoli Paesi, rende possibile il finanziamento a debito dei disavanzi di bilancio conseguenti alla cronica compressione dei gettiti fiscali. Da ciò deriva, nello specifico, che la speculazione sui titoli del debito sovrano nei paesi periferici dell’area Euro sia stata la conseguenza della crisi, non la causa.
Il debito dei Paesi periferici dell’area Euro non è, quindi, (soltanto) il risultato di presunte politiche dissolute e lascive attuate dai “corrotti” governi mediterranei estranei al rigore nordico ed amanti dell’elefantiasi del settore pubblico e delle pensioni, come una certa narrativa faziosa e razzista ripete da troppo tempo seppur costantemente smentita dalle rilevazioni su spesa pubblica e produttività reali (in buona parte) dei Paesi del sud dell’Europa. La conseguenza è che non c’è alcuna giustificazione morale a reale sostegno delle politiche di Austerity, e tanto meno una nemesi di matrice calvinista. L’indefessa ostinazione nell’imposizione punitiva di tanto inutili quanto controproducenti misure di austerità evidenzia solo la sordità del fallimentare pensiero unico neo-liberista.
L’austerità comporta esclusivamente la compressione delle prestazioni sociali e pensionistiche, con tutto un novero di disagi e di spese che non potranno che scaricarsi sui singoli cittadini. Dall’altro lato, invece, tutto questo rappresenta un’occasione particolarmente remunerativa per le società concessionarie che subentreranno allo Stato nella gestione di servizi pubblici così liberalizzati e privatizzati. Non è un caso che alle privatizzazioni degli anni Novanta siano seguiti gli anni di crescita più contenuta dell’economia italiana di tutto il periodo del dopoguerra.
Al contrario, urge invertire il trend di deflazione salariale generalizzata introducendo uno standard retributivo europeo, con aumenti salariali parametrati al tasso di crescita e connessi al livello del surplus commerciale accumulato da ogni singolo Stato nei confronti degli altri Stati-membri, e fermare la competizione fiscale tra gli Stati europei, arrestando l’emorragia delle delocalizzazioni produttive e dei conseguenti costi della disoccupazione a gravare sul welfare. E’ necessario superare il credo neo-liberista ed il suo dogma dell’asservimento dello Stato ai dettami del capitale e dei mercati assorti ad infallibili entità autoreferenziali superiorem non recognoscentes, riaffermando l’importanza di un intervento dello Stato nell’economia funzionale ad assicurare la sostenibilità sociale di meccanismi di mercato altrimenti tutt’altro che autosufficienti e razionali. In totale antitesi con quanto perorato dalla dottrina anti-inflazione ed anti-spesa pubblica del pensiero unico imperante, soltanto il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori potrebbe ridare impulso alla domanda domestica risollevando le singole economie nazionali e riducendo gli enormi scompensi di bilancia commerciale che affliggono i Paesi dell’Eurozona.
L’Autore richiama quindi il pensiero di Keynes, sostenendo che l’austerità rivolta al risanamento dei conti pubblici è attuabile solo nei periodi di espansione, non certo in quelli di recessione. Sarebbe inoltre auspicabile un tempestivo intervento statale nel settore bancario, rivolto ad introdurre una nuova regolamentazione dell’operato delle banche[1] e a contrastare, di conseguenza, le speculazioni finanziarie. Mentre le istituzioni europee e i governi nazionali sembrano ipnotizzati dal problema del debito pubblico, è infatti probabile che la prossima crisi in Europa sarà una crisi bancaria con epicentro nei Paesi principali dell’Eurozona.
La Banca Centrale Europea (BCE) dovrebbe svolgere il ruolo di “prestatore di ultima istanza”, ossia di “vera” Banca Centrale, sottraendo così gli Stati al ricatto della speculazione finanziaria sui titoli del debito pubblico e finanziando illimitatamente i disavanzi degli Stati con nuova moneta (ciò che oggi viene realizzato indirettamente, tramite il cd. Quantitative Easing). L’Autore arriva ad affermare che sarebbe addirittura sufficiente che la BCE anche solo “dichiarasse” la disponibilità ad implementare queste politiche espansive per ottenere sui mercati il risultato sperato. Il debito, infatti, non si riduce risparmiando ma investendo: in infrastrutture, formazione, ricerca, settori innovativi e di interesse sociale. In una autentica unione monetaria la banca centrale assorbirebbe nel suo stato patrimoniale i debiti delle banche dei Paesi in disavanzo e i crediti degli Istituti di quelli in avanzo di bilancio. Il problema dell’Euro in sé non sono tanto la specializzazione e la mobilità produttiva, ma l’assenza di politiche integrate di carattere strutturale e fiscale a livello europeo, mirate al riallineamento degli squilibri.
Soltanto incrementando il rapporto deficit/PIL nel breve-medio periodo con interventi pubblici strutturali mirati e pianificati si potrà fermare una deriva che sembra orma inevitabile. Diviene quindi prioritario individuare nuove forme di organizzazione economica utili a coniugare sostenibilmente la funzione sociale dello Stato e le libertà del mercato. E’ necessario riflettere, da un lato, sull’opportunità di introdurre nuove forme di pianificazione strutturale dell’attività economica, con un forte ruolo di impulso e sostegno da riconoscere al settore pubblico e alle politiche industriali dello Stato e, dall’altro, su come coniugare tutto ciò con gli interessi degli attori privati del sistema. La realtà cinese del “socialismo di mercato” diviene interessante proprio perché pone in evidenza una nuova forma di sintesi tra Stato e mercato che negli ultimi 30 anni ha prodotto una crescita economica annua del 9-10%, seppure con alcuni evidenti e censurabili limiti.
In virtù della speculare aderenza a quanto finora descritto, l’Autore si concentra in primis sull’analisi del caso greco. Gli attacchi speculativi dei mercati rivolti ai titoli di Stato ellenici sono presentati come la “piaga biblica” volta a punire esemplarmente uno Stato che per anni ha manipolato i propri bilanci, al fine di nascondere il costante sforamento dei parametri di Maastricht proprio con il “nobile” intento, paradossalmente tutto liberista, di aderire al progetto della moneta unica. Ma ad uno sguardo più attento questo approccio rivela subito tutte le sue contraddizioni e cela il fine esclusivo di preservare gli interessi di Francia e Germania e dei relativi istituti bancari, i maggiori detentori del debito privato “socializzato” dei greci e, quindi, del debito pubblico della Grecia. Con il supporto di una poderosa campagna di propaganda mediatica volta ad insinuare la rappresentazione della Grecia come un Paese ozioso e vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”, la rigorosa imposizione di misure di austerità ha sostanzialmente paralizzato l’economia ed indotto una profonda recessione, ulteriormente sostenuta a livello pan-europeo dall’avvio di una politica di rigore sul debito pubblico e di contenimento dei deficit eccessivi di bilancio. Le “stelle” e le “strisce” cui la Grecia (e non certo da sola) aspirava si sono ben presto tramutate in “lacrime e sangue”.
Non dissimile è la condizione di molti altri Paesi dell’Eurozona, come Spagna e Portogallo. L’Autore identifica inoltre la causa principale della crisi economica, nello specifico iberica, nell’eccessiva specializzazione produttiva in beni e servizi non votati all’esportazione, come quelli connessi all’edilizia, e nella conseguente esplosione di bolle immobiliari dovute ad un inassorbibile surplus di offerta. Persino Francia, Belgio e Olanda devono far fronte alla problematica sostenibilità del proprio debito pubblico e la stessa Germania, con la sua strutturale dipendenza dall’export a fronte di un mercato interno volutamente “depresso”, comincia ad accusare la cronica recessione economica e, quindi la calante capacità di spesa dei propri partner europei[2], inducendo lo stesso Giacché a preconizzare una possibile futura crisi bancaria “tombale” per l’Euro, proprio di matrice teutonica.
Certo, il denaro a costo zero ha moltiplicato le energie multilivello del governo tedesco. Il settore delle costruzioni ha registrato in Germania un aumento dell’attività del 12% nel 2011[3], con buona pace delle contemporanee traversie del mercato immobiliare iberico. Il motivo di questa frenetica attività è semplice: la fuga di capitali dai Paesi mediterranei ha fatto affluire in Germania centinaia di miliardi di Euro, investiti in depositi o titoli di Stato con rendimento pari a zero, quando non inferiore all’inflazione. Le banche tedesche, nel solo primo trimestre del 2012, hanno registrato 363 miliardi di nuovi depositi. Molti, infatti, scommettono che prima o poi nasca un “Euro del Nord” rivalutato del 10- 20% rispetto al valore attuale della moneta unica e sembra che questo ben valga la temporanea infruttuosità dei loro investimenti.
L’Italia ha vissuto anni di costante tensione speculativa sui Titoli di Stato, mitigata solo dal ruolo attivo assunto Banca Centrale Europea a conduzione Draghi. Stretto dai vincoli dell’austerità, con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio e della riduzione progressiva del debito, il nostro Paese ha subito un marcato peggioramento degli indicatori economici e delle condizioni reali di vita in seguito alla rigida applicazione di misure rigoriste da parte di governi proni ai dettami della cd. Troika (BCE, FMI e Commissione). Con buona pace delle litanie ideologiche, lo Stato, infatti, non è una “famiglia”. Lo Stato è un’entità superiore, “di ultima istanza”, chiamata a coordinare, disciplinare e promuovere le diverse formazioni sociali ed entità individuali in cui esso stesso si articola e ad assumersi, per un fine superiore di stabilità e pace sociale, il “rischio sistemico del cambiamento”, ossia il rischio avulso dalla normale condotta dei singoli operatori socio-economici, ogni qual volta esso dovesse manifestarsi nelle diverse contingenze delle crisi.
Particolare rilievo merita il tacito inasprimento delle condizioni del Patto di Stabilità deciso dal Consiglio Europeo nel marzo 2011, e subito recepito da un governo italiano già da tempo sotto osservazione e palese ricatto. Il fiscal compact ufficializza l’adozione delle politiche di riduzione della spesa pubblica secondo parametri e modalità particolarmente svantaggiosi per il nostro Paese, costretto ad abnormi correzioni di bilancio in tempi più che stringenti che potrebbero seriamente pregiudicare il sistema del welfare e precludere per molto tempo l’adozione di politiche di sviluppo ed investimenti pubblici nei diversi campi della ricerca, della formazione e delle infrastrutture. Tutto ciò avrà serie conseguenze di natura non solo contingente, ma anche e soprattutto strutturale, sulla crescita economica del Paese e determinerà necessariamente un peggioramento del rapporto debito-PIL. Un paradosso finanziario imposto da vere e proprie lettere “minatorie” provenienti dall’Europa che è troppo superficiale, nonché fazioso e screditante, attribuire esclusivamente al governo di centro-destra di quegli anni, senza tra l’altro riconoscerne specularmente i meriti in relazione al miglioramento dei parametri di bilancio e dimenticandosi, come sempre, degli illuminati “professori” adepti dell’ideologia neo-liberale “EURista” (non “europeista”) che l’Autore dice tanto di avversare e che già da tempo avevano baldanzosamente condotto l’Italia in una “tana del lupo” senza uscita[4].
Questo Paese non potrà mai veramente voltare pagina finché non si denuncerà compiutamente la miopia (o faziosità?) della pseudo-sinistra “pietista” e globalista, che si suppone rivendichi progressività, tutele e diritti in nome dei Lavoratori ma che, in realtà, pretende contraddittoriamente di poter perseguire tali (di per sé assai nobili) intenti distruggendo proprio quegli istituti dello Stato e del Diritto che, di fatto, sono gli unici preposti alla loro garanzia. Il credo ultra-globalista delle pseudo-sinistre (proprio per questo marchiate dal prefisso pseudo-), infatti, espone di conseguenza le imprese ed i lavoratori italiani alla competizione interna ed esterna da parte di realtà culturali, economiche e politico-geografiche del tutto estranee alle logiche democratiche e garantiste, a tutto vantaggio degli speculatori e degli sfruttatori, siano essi “caporali” locali o magnati del Capitale internazionale. In questa sede, per non scadere in eccessiva prolissità, non si considereranno le ricadute strutturali di una tale ipocrisia sulla situazione planetaria dell’ambiente (come se i cieli cinesi o vietnamiti fossero altri rispetto al nostro) o anche, semplicemente, sulla qualità dei prodotti e servizi immessi sul mercato a pseudo-vantaggio del consumatore, indotto ad accettare minori guadagni tramite il contentino di quell’apparente abbattimento dei prezzi che cela solo ulteriori costi nascosti.
In un clima di intimidatoria derisione e capzioso allarmismo mass-mediatico che da lì a poco, secondo schemi ormai cari ai fautori della (pseudo-)democrazia globalista, avrebbe portato all’ascesa di un governo tecnocratico totalmente privo di legittimazione popolare, gli speculatori internazionali trovarono quindi il pretesto perfetto per convogliare le proprie malevole attenzioni sul debito italiano e sull’ormai tristemente famoso spread BTP/BUND, scatenato dalle faziose dichiarazioni congiunte dei maggiori esponenti della BCE e di diverse istituzioni bancarie private europee e non certo sorto semplicemente in risposta all’ottimismo bonario manifestato da Berlusconi. I fatti dimostrano incontrovertibilmente che l’Italia era stata interessata solo marginalmente della crisi finanziaria mondiale fino a quel momento, visto la sostenibilità fino ad allora espressa del rapporto deficit/PIL, dalla situazione economica e, in generale, dalle politiche di bilancio del nostro Paese[5].
La situazione italiana è infatti molti simile nella forma a quanto evidenziato in relazione agli altri Paesi, ma completamente diversa nella sostanza. Per quanto, infatti, non estraneo alle criticità dimostrate dal sistema bancario basato sulla finanza speculativa dei derivati, il sistema finanziario italiano ha dimostrato, o quanto meno abilmente dissimulato, una certa stabilità e solidità e la componente di debito pubblico riconducibile ai cosiddetti “salvataggi bancari[6]” è (ancora) del tutto residuale, per quanto di certo non trascurabile[7], e potrebbe addirittura offrire nuove opportunità di crescita se, come ragione suggerirebbe, questo aprisse il viatico alla ri-nazionalizzazione delle banche “salvate” e, di conseguenza, alle possibilità di finanziamento agevolato che solo un ente di diritto pubblico può offrire alle imprese in difficoltà a sostegno dell’economia[8]. I problemi dell’Italia sono da una parte la stagnazione di un sistema economico (in troppa parte!) basato sulla clientela e la cooptazione ideologica e, dall’altra, il debito “pregresso”, non quello derivante dalle crisi bancarie proprie o altrui (es. in seguito alla partecipazione al Fondo salva-Stati) che rispetto al suo lato “core” appare irrisorio. E’ questo il vero “macigno”, la cui entità impedisce di attuare opportune politiche di sviluppo. Il tutto aggravato dall’erronea e fallimentare adesione ad un sistema politico-economico in totale competizione e contrapposizione con il nostro, quello tedesco, che non potrà che sfociare nella completa annessione del nostro Paese o nel più esoso dei divorzi.
Il debito pubblico “pregresso” italiano, ossia quello non maturato nel quadro dell’attuale contingenza di flessione economico-finanziaria internazionale, è stato (spesso) contratto (e continua, purtroppo, ad essere troppo spesso accumulato) per finanziare politiche clientelari e di cooptazione ad ogni livello che ancor oggi denotano profondamente gli 830 miliardi di spesa pubblica[9] in maggior parte “improduttiva”[10] di questo Paese: (quanti!) finanziamenti per appalti inesistenti, opere incompiute, elefantiasi burocratica, sprechi della sanità senza alcun livello programmatico standard di riferimento nella spesa, costi della difesa “ideologica” contro nemici “immaginari” (o comunque altrui!), privilegi della diplomazia, finanziamento incontrollato e a fondo perduto di miriadi di organizzazioni internazionali e fondi intergovernativi di chiaro stampo ideologico, affitti stratosferici delle sedi istituzionali ed amministrative, bonus elettorali, abuso degli ammortizzatori sociali alla mercé della convenienza economica delle grandi imprese private vicine alla politica, sfruttamento dello strumento degli incentivi alle imprese, collusioni di ogni genere, schiere bibliche di accoliti politicizzati mantenuti nelle strutture amministrative locali, partitiche, nelle società “partecipate”, nelle cooperative e nell’universo associativo, business dell’accoglienza e delle emergenze di ogni tipo, stipendi e pensioni d’oro, quando non “baby”, totalmente avulsi dal livello del mercato del lavoro e costantemente rivalutati senza alcun nesso con la reale inflazione (spesso in prossimità di appuntamenti elettorali).
Qui non si parla del solito spauracchio dell’evasione e dell’elusione, con le sue cifre di fatto in-quantificate ed in-quantificabili a fronte di una pressione fiscale insostenibile e della competizione transnazionale, stucchevolmente agitato proprio da chi ha voluto l’abolizione di ogni barriera e controllo alla circolazione internazionale del denaro al solo fine di demonizzare le classi produttive “storiche” del Paese, colpevoli forse di produrre beni e servizi materiali troppo “territoriali”, e non elucubrazioni intellettualoidi o speculazioni finanziarie (sempre, purtroppo, con le dovute eccezioni di reale rilievo penale). Qui si parla di veri e propri “lussi” mantenuti per di più senza mai difendere e sostenere quegli elementi fondanti e strutturali dell’economia produttiva che li avrebbero potuti almeno rendere sostenibili nel tempo ma, anzi spesso e volentieri, lasciandoli implodere, emigrare, delocalizzare quando non svendendoli letteralmente allo straniero.
C’è un mito da sfatare: il diritto all’insolvenza. Da un lato, una banca centrale che agisce da “prestatrice di ultima istanza” è un istituto cui è riconosciuto il potere di procedere all’adozione di misure monetarie eccezionali e funzionali alla gestione di eventuali crisi sistemiche, non il compito di provvedere al finanziamento monetario del bilancio degli Stati, tra l’altro esplicitamente escluso dalla legislazione costituzionale di alcuni Paesi, tra cui la Germania la quale, naturalmente, sarebbe disposta a fare eccezioni solo a favore di se stessa, nei rari casi in cui le proprie aste di titoli dovessero andare deserte[11].
Troppo spesso il ruolo di “demiurgo” ordinatore del sistema bancario, che giustamente la BCE dovrebbe poter ricoprire, viene confuso con la possibilità di stampare moneta ad libitum, senza che ciò possa comportare delle conseguenze in relazione alla bilancia commerciale dei singoli Paesi, alla finanziabilità dei loro deficit futuri ed alla sostenibilità del debito pubblico e privato degli stessi. Dall’altro lato, i creditori devono essere tutelati in merito al capitale investito e alle condizioni pattuite di prestito, siano essi spregiudicati “lupi” di Wall Street o semplici cittadini che abbiano acquistato buoni fruttiferi in Euro della Cassa Depositi e Prestiti presso le Poste. Discorsi analoghi varrebbero, inoltre, anche nei confronti delle banche centrali nazionali eventualmente redivive in seguito ad un’ipotetica uscita dalla moneta unica, tanto più una volta esplicitamente esclusa l’applicazione della Lex Monetae, soprattutto nei confronti dei creditori internazionali[12].
Sarebbe indubbiamente meraviglioso per chiunque non dover rendere conto dei propri debiti. Il problema, infatti, non è affatto morale ma semplicemente pratico. Stampare moneta sulla base di altra moneta, al di fuori degli attuali canoni di sostenibilità del sistema, a loro volta sempre “pattizi” e fiduciari, non può che comportare la forte svalutazione di quella certa valuta ed il conseguente default, tanto più in presenza di un’ingente mole di debito pubblico. L‘Italia non possiede quelle risorse naturali minerarie ed energetiche necessarie per sostenere la propria economia o che altri Paesi, come ad esempio la Russia nel 1998, hanno potuto immettere sul mercato per finanziare il proprio budget e riprendersi dal dichiarato fallimento. Il nostro Paese ha inoltre sistematicamente dismesso quell’industria strategica a conduzione statale con cui avrebbe potuto garantire il mercato interno e l’equilibrio della bilancia commerciale nei periodi di flessione economica, rilanciando lo sviluppo. Il canovaccio propagandistico “hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità” assume quindi in Italia tratti di inquietante veridicità, almeno in relazione alle élites parassitarie ed autoreferenziali di questo Paese, che da sempre vivono a spese di una collettività al contrario svilita, sfruttata[13] e a sua volta colpevole di adulare i propri carnefici come unici depositari illuminati dei “tecnicismi” della verità rivelata e del politicamente corretto.
Appare evidente che solo una decisa ripresa dell’intervento pubblico nell’economia possa dare risposta ai problemi che il mercato non solo “si è dimostrato incapace di risolvere”, ma ha addirittura creato. Il vero punto politico diviene allora la discussione su cosa significhi “investimento pubblico” per la crescita e la conseguente definizione di una politica economica realmente alternativa, che non si traduca, come al solito, in finanziamenti a fondo perduto per i simpatizzanti di questo o quell’approccio ideologico e nel solito assistenzialismo diretto o dissimulato nel sovradimensionamento disfunzionale del pubblico impiego[14].
Probabilmente, potrebbe rivelarsi utile riconfigurare profondamente la natura e le modalità di erogazione ed impiego dei fondi strutturali cosiddetti “europei”, ma in realtà pienamente “italiani” in quanto meramente riassegnati all’Italia nell’ambito del bilancio comunitario e profumatamente pagati dalle tasse dei cittadini con gli interessi sul debito pubblico. In Italia, molta di questa ingentissima mole di denaro viene infatti spesa quasi esclusivamente per foraggiare gli “accoliti” della propaganda partitico-ideologica, come in buona parte dell’universo associativo-cooperativo (quindi comprensibilmente “europeista”), lasciando ben poche risorse residue ad interventi potenzialmente ben più produttivi, come quelli sulle infrastrutture, per di più ulteriormente aggravati dalle regole falsamente “responsabilizzanti” del co-finanziamento (leggasi “raddoppio” di spesa) e dai vincoli del Patto di Stabilità per gli Enti Locali[15]. Risorse, quindi, spesso perdute e “regalate” ad altri Stati UE perché di impossibile utilizzo in Italia[16].
Si impone però una riflessione su quanto possa essere saggio riproporre “vecchie” ricette per risolvere problemi nuovi in ambiti del tutto differenti. Gli investimenti, per risultare almeno “perscrutabili” e politicamente programmabili, vista l’impossibilità di una vera e propria “previsione” di lungo periodo in un mondo caratterizzato da così tante variabili incontrollabili, devono infatti essere “protetti”[17]. Le tanto decantate politiche keynesiane furono adottate in un contesto economico protezionista, connotato da forti barriere tariffarie e non tariffarie in ingresso ed incentivi all’export in uscita nonché supportato da un regime di tassi valutari di cambio flessibili e tassi di interesse non certo agli attuali minimi storici[18]. Tutti solo lontani ricordi al tempo del WTO e dell’Europa Unita ordoliberista. Senza dimenticare poi come tutto ciò sia, a suo tempo, “risolutivamente” sfociato in una guerra mondiale.
Come essere, quindi, sicuri che la nuova liquidità immessa nel sistema non finisca quasi esclusivamente per alimentare le importazioni di beni di consumo e strumentali (ad es. robotica) ed i guadagni delle imprese estere, nell’attuale regime di libertà di circolazione di beni, servizi e capitali nel mercato comune? Senza tralasciare il possibile incremento dei volumi delle rimesse di denaro verso l’estero, vista l’enorme massa di manodopera sottocosto offerta alle imprese dall’immigrazione incontrollata degli ultimi decenni. Tutto questo potrebbe lasciare ai nostrani novelli Keynes-liberali il “cerino” non solo di un debito pubblico ancora più ingente e di una bilancia commerciale in rosso, ma anche di un nuovo boom inflazionistico, senza però la sperata crescita economica ed occupazionale di carattere strutturale. Il “Dumping salariale” del neomercantilismo tedesco, con i suoi mini-job, docet[19].
Fondamentale appare, inoltre, inquadrare la situazione in chiave geopolitica. Attribuire il fallimento del “sistema Italia” ai governi Berlusconi è soltanto uno dei tanti stanchi ed ipocriti canovacci reiterati da una certa politica di pseudo-sinistra fuori dalla storia ed ormai svuotata dall’interno dei propri valori, alla totale mercé del volere speculativo dei “poteri forti” della finanza e storicamente sola ed unica colpevole del disastro dei Trattati Europei anti-italiani e dello scellerato cambio Euro-Lira. Piaccia o no ai detrattori berlusconiani, la storia dimostrerà che le colpe di Berlusconi nei confronti di questo Paese sono più “culturali” che politico-economiche. Assegnare la responsabilità delle mirabolanti vicissitudini dell’italico spread esclusivamente alle estemporanee e, di fatto, incontrovertibili, dichiarazioni del Cav. di Arcore, per di più rivolte alla moderata rassicurazione degli stessi mercati[20], significa infatti non solo ignorare faziosamente l’operato dell’agenda Tremonti ma, soprattutto, contraddire l’intero impianto teorico fin qui addotto per la ricostruzione delle dinamiche reali della crisi e non considerare volutamente il contesto internazionale della contrapposizione tra Occidente e Russia che proprio in quegli anni andava nuovamente acuendosi sui temi energetici, vedendo proprio in Silvio Berlusconi, fin dalle vicende di Pratica di Mare, una “anomalia” di dialogo tra contendenti da rimuovere immantinente[21].
Come non cogliere, infine, l’ironia celata dall’assurgere del “celeste impero” a nuovo possibile modello dell’economia globale? Lo pseudo-comunismo cinese, ultra-liberale con i forti e stalinista con in deboli, è il trionfo dell’ideale neo-liberista di asservimento dello Stato e dell’intero Popolo ai dictat del mercato e dell’economia. In Cina, in verità, non è affatto lo Stato che programma la crescita ma sono l’economia e la finanza che strutturano l’entità statale e sfruttano il Popolo inerme ed oppresso per le proprie esigenze produttive e speculative, incarnandosi in una sempre più intoccabile aristocrazia burocratico-partitica[22]. La realtà cinese è la riprova di come, per mantenere negli eccessi un milione di individui[23], sia necessario ridurre in sostanziale schiavitù quasi un miliardo e mezzo di persone e di come il dirigismo economico, per sua natura autocratico perché svincolato dal vincolo del consenso, differisca radicalmente dal concetto bucolico di “decrescita felice” e sia quanto di più lontano dalla democrazia la quale, per autolegittimarsi e perpetuarsi nel tempo, ha invece bisogno di fornire alla base elettorale continui riscontri di breve periodo. Se poi la vera natura delle politiche Keynesiane sia davvero riarmare il Leviatano e condurlo nuovamente ad uno scontro bellico che, alla fine, rinnovi e rivaluti il capitale esistente rimuovendo tout-court le “incoerenze” sistemiche…così come se il vero fine delle pseudo-sinistre (sempre e solo pseudo-) occidentali sia tramutare i popoli e le culture in una moltitudine informe di individui indifesi ed indifferenziati (appunto, “cinesizzati”)…ai posteri l’ardua sentenza!
Il filosofo Diego Fusaro, con Foucault, ci ricorda che la crisi è un metodo di governo. Diremmo con Foucault: impone a livello economico scelte politiche come necessità ineludibili. La verità è invece che non esiste una sola misura che sia realmente necessitata dai mercati e che, invece, non sia frutto di precise scelte politiche.
Ma il nostro sguardo deve osare di più. E se la crisi fosse l’obiettivo, e non il problema? E’ forse possibile che l’ideologia del risanamento dei conti pubblici sia VOLONTARIAMENTE preposta ad “infierire” sulle vulnerabilità del sistema economico, e a tal fine, “sguinzagli” costantemente il suo seguito di vassalli ed ideologhi più o meno ignari della realtà dei fatti, consentendo agli speculatori di invertire il trend di abbassamento dei tassi di interesse e di proliferazione produttiva che sarebbe altrimenti consentito da moderate aperture alla finanza ed al libero commercio internazionale su basi di equilibrio e reciprocità? E se le liberalizzazioni fossero solo il viatico di concentrazioni oligopolistiche multinazionali, volte a sopprimere la stessa concorrenza di mercato cui inneggiano instancabilmente[24]? E se la fede globalista mirasse soltanto a distruggere la sovrabbondanza di capitale fisico e ad abbattere le garanzie per i lavoratori, proprio al pari di una guerra mondiale, secondo l’esclusivo e particolare interesse delle élites atlantiste, incuranti delle conseguenze sociali delle dinamiche di riconfigurazione prodotte dalla liquidità transnazionale degli assets produttivi? E se, quindi, l’Austerity servisse solo a far continuare gli speculatori a “fare soldi con i soldi”, CREANDO instabilità economica e promuovendo la finanziarizzazione dell’economia, ricorrendo anche al “gioco sporco” degli spread, per di più senza alcun rischio grazie al trucco della nazionalizzazione del debito privato, proprio quando ormai non si potrebbe più?
E’ ora che la coscienza collettiva si desti dall’illusione che la ricchezza sia un costrutto individuale, prima che tutto ciò si tramuti irrimediabilmente nell’incubo della terzomondizzazione dell’Europa. Lo Stato può e deve esercitare le sue potestà di intervento nell’economia in contingenze critiche, ma il suo ruolo preponderante deve rimanere normativo e perequativo, a garanzia di quella sovranità che appartiene solo al popolo e di cui lo Stato stesso è espressione costituzionale.
© Matteo Fulgenzi
Note:
[1] L’economista Emiliano Brancaccio, in relazione alle vicende italiane di MPS, fa esattamente la previsione opposta ossia che l’epicentro si collochi nelle “periferie” dell’Eurozona. Liberazione, 23 gennaio 2013.
[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/22/se-germania-fa-boom/331117
[3] https://www.guidafinestra.it/edilizia-in-germania-boom-di-permessi-di-nuove-costruzioni-in-particolare-nel-residenziale
[4] https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/07/ideologia-neoliberista-come-liberarsene/2804872
[5] http://formiche.net/2014/05/vi-racconto-perche-venne-pilotata-la-crisi-italiana-parla-tremonti
[6] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/04/03/debito-pubblico-salvataggio-banche-venete-lo-fa-salire-di-112-miliardi-a-marzo-gentiloni-esultava-cala/4268046
[7] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-12-19/banche-gentiloni-autorizzati-cdm-20-miliardi-maggior-debito–210558.shtml?uuid=ADzK9tGC
[8] Brancaccio E. su Liberazione, 23 gennaio 2013.
[9] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-10-26/gutgeld-spesa-pubblica-italiana-e-830-miliardi-085627.shtml?uuid=AEhpDvvC&refresh_ce=1
[10] http://www.liberarelitalia.it/spesa.php
[11] http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=0000000167476
[12] http://www.wallstreetitalia.com/italia-fuori-dall-euro-per-uscire-dalla-crisi-idea-dalla-germania
[13] https://www.investireoggi.it/economia/la-spesa-pubblica-italiana-unemergenza-la-politica-la-ignora
[14] Santoro P., Deboli ma forti. Il pubblico impiego in Italia tra fedeltà politica e ammortizzatore sociale, Franco Angeli, Milano, 2014
[15] https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/07/finanziamenti-europei-la-supercazzola/1755132
[16]http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sez_contr_affari_com_internazionali/2016/delibera_1_2016_sezaut.pdf
[17] https://keynesblog.com/2013/03/07/keynes-in-difesa-del-protezionismo-economico
[18] http://www.eunews.it/2017/01/28/trump-e-lattualita-di-keynes-il-futuro-e-nel-protezionismo/76376
[19] https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/germania-regina-export-affossa-europa-78606
[20] Il celebre: i ristoranti sono pieni ed i biglietti aerei prenotati. Ci si potrebbe chiedere, che cosa altro avremmo preferito, da italiani, che il nostro Premier dichiarasse in sede G20 con riguardo al nostro Paese. Che in Italia l’unica cosa che supera il benessere sia l’esibizione del benessere stesso, è un dato incontestabile. Che la somma totale dei coperti dei ristoranti e dei posti a sedere sugli aeromobili sia ben lontana dalla cifra di 60 milioni, e sia quindi rappresentativa di solo di una piccola frazione della popolazione italiana, è sicuramente un’altra questione, probabilmente di scarso interesse per i magnati dei mercati.
https://tg24.sky.it/economia/2011/11/04/fmi_ue_italia_monitoraggio_g20_borsa.html
[21] http://www.ilgiornale.it/news/politica/pure-rizzo-conferma-golpe-cav-fatto-fuori-i-rapporti-putin-1525500.html
[22] http://www.individualistaferoce.it/2018/01/04/la-cina-ancora-comunista
[23] https://www.reuters.com/article/us-china-economy-wealthy-idUSKBN19B059?il=0
[24] E’ infatti noto come le grandi multinazionali, forti della propria capitalizzazione e delle economie di scala interne, siano solite adottare politiche marcatamente ribassiste sul prezzo d’ingresso dei propri prodotti e servizi (dumping) al fine di espellere dal mercato le realtà concorrenti meno solide e strutturate, mirando inoltre ad acquisirne gli assets principali, quando non il pieno controllo, anche attraverso movimenti finanziari speculativi volti ad abbattere il valore delle loro partecipazioni azionarie e a renderne conveniente l’acquisto. Cfr. Krugman R., Obstfeld M., Melitz M.J., Economia Internazionale, Pearson, su http://www.ecostat.unical.it
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FONTI INTERNET:
goofynomics.blogspot.com – blog di Alberto Bagnai
orizzonte48.blogspot.com – blog di Luciano Barra Caracciolo
www.asimmetrie.org – Associazione Italiana per lo Studio delle Asimmetrie Economiche