La disciplina colposa in ambito sanitario, con particolare riguardo alla responsabilità del medico che coopera con altri nella cura del paziente.
La responsabilità colposa, in ambito sanitario, è questione che appassiona il dibattito degli interpreti, i quali vedono in essa un terreno fertile per porre in essere una proficua discussione, giacché convergono molteplici problematiche, a cui, ancora oggi, non è stata apportata una soluzione definitiva.
La disciplina della colpa in ambito sanitario è il punto di partenza della presente riflessione, giacché delineati i tratti essenziali di questa particolare manifestazione dell’agire colposo (art. 43 c.p.) è possibile spingersi a comprendere un fenomeno molto complesso, ossia quello della cooperazione colposa (art. 113 c.p.) che, in ambito sanitario si specifica in responsabilità di equipe.
Il problema circa l’individuazione dello statuto della responsabilità medica in sede penale è reso complesso dal fatto che tale operazione si rivolge ad un settore ove l’uomo è chiamato ad avere cura di un diritto fondamentale, quale è la salute (art. 32 Cost); la cui tutela coagula una moltitudine di presidi che concorrono a delineare i tratti essenziali della più classica delle posizioni di garanzia, ossa quella del soggetto esercente una professione sanitaria (art. 40 cpv).
Quanto affermato trova dimostrazione nella presa d’atto che il fenomeno oggetto di analisi è il regno della causalità omissiva[1], tant’è che sulla condotta omissiva del sanitario si è costruito lo statuto della causalità scientifica[2] che, oggi, consente di individuare con alto grado di probabilità logica e credibilità razionale il nesso di condizionamento istituto dal combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p.
Tale digressione è atto dovuto in quanto è necessario sottolineare come il piano della causalità omissiva nei delitti commissivi mediante omissione spesso si intreccia con la riflessione circa la sussistenza, nel caso di specie, della causalità della colpa (tratto oggettivo di quel fenomeno normativo che è l’imputazione colposa), la cui dimostrazione spesso sopperisce a deficit probatori, in tema di causalità oggettiva, specie in ambito sanitario.
Riflettere sulla responsabilità medica, in ambito penale, non è operazione semplice, in quanto vi sono piani che tengono a sovrapporsi in un equilibrio complesso, teso a non inibire una condotta che l’ordinamento ritiene essenziale per la collettività.
In linea generale la responsabilità colposa è descritta nella terza alinea dell’art. 43 c.p., ove si legge che il delitto è colposo quando, stante l’assenza di volizione, l’evento, anche se preveduto (colpa cosciente), si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Discende da ciò che l’anima della responsabilità colposa è un’anima normativa, in quanto vuoi la colpa generica vuoi quella specifica attingono la loro essenza nella violazione in una regola cautelare che integra il precetto, necessariamente orientato alla punizione di una condotta colposa che deve espressamente stigmatizzata dalla legge penale (art. 42, comma 2, c.p.).
La struttura normativa della colpa trova massima valorizzazione in ambito sanitario, atteso che statisticamente la responsabilità del medico e dei suoi collaboratori ha naturale sbocco in imputazioni come l’omicidio colposo (art. 589 c.p.) o le lesioni personali colpose (art. 590 c.p.).
Queste ultime due norme trovano applicazione in fattispecie ove assume rilevanza una condotta del soggetto agente intrisa di negligenza ed imprudenza; ma laddove il punto di emersione della responsabilità si appunti sulla violazione delle leges artis che disciplinano la professione medica, ossia la venuta meno a logiche di perizia, la questione si complica non poco.
La presenza di una condotta imperita comporta una riflessione approfondita sulla rilevanza che, in ambito sanitario, assumano le linee guida, sulla cui valorizzazione si è incentrata la legislazione che ha interessato in modo frenetico e, molto spesso farraginoso, il settore oggetto di attenzione.
Sulla violazione delle regole di perizia si appunta l’intera disciplina di cui consta l’art. 590 sexies c.p. norma di recente conio, introdotta dalla Legge 24/2017 (Legge Gelli-Bianco), che all’art. 6, comma 2 c.p., ha abrogato quanto, in precedenza, disposto dall’art. 3 D.L- 158/2012, convertito con modificazioni in Legge 189/2012[3].
Ciò a testimonianza della confusione che, in sede di definizione dello statuto della responsabilità colposa del sanitario, connota il piano di lavoro degli interpreti, non sempre in grado di fornire una soluzione chiara ai problemi che discendono dall’enucleazione di condotte penalmente rilevanti all’atto di esercitare questa professione di pubblica utilità. Il ruolo delle linee guida, ossia sapere scientifico sedimentato nel tempo e selezionato dalla migliore letteratura medica, come detto, è oramai preponderante al fine di valutare la condotta di coloro che ruotano attorno al paziente necessitante di cure.
L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul punto consente di guardare ad esse non come regole cautelari, bensì come elementi in grado di specificare al meglio la condotta del medico, rafforzando il precetto normativo in termini di determinatezza (art. 25, comma 2 Cost).
Molto si è discusso in dottrina circa la possibilità di imputare una responsabilità penale in capo ad un soggetto sulla base della violazione delle linee guida e buona pratiche, giacché esse sono sapere che tende a mutare nel tempo e, spesso, risulta essere contraddittorio.
Sul punto la recente novella del 2017 (artt. 3, 4 e 5 della Legge 24/2017) ha previsto un meccanismo di certificazione a livello ministeriale delle linee guida, al fine di pervenire alla individuazione delle migliori prassi mediche, non volte al risparmio di spesa, ma al rispetto delle prerogative del paziente, circoscrivendo il pericolo di ipertrofica indeterminatezza dei contenuti.
Il problema della scelta delle linee guida, nonché quello della necessità di discostarsi da esse quando non più in linea con la concretezza della fattispecie oggetto di attenzione da parte del medico (o del sanitario in generale) è questione che attiene alla perizia e che, alla luce della legislazione del 2012 (Legge 189/2012) si appuntava sulla differenza tra colpa lieve (che escludeva la responsabilità penale del medico) e la colpa grave, quest’ultima considerata addebito soggettivo in grado di fondare una responsabilità penalmente rilevante. Oggi, lo statuto della responsabilità colposa del sanitario è interferita dalle scosse telluriche che discendono dalla venuta meno, in seno all’art. 590 sexies c.p., di questa decisiva distinzione[4].
Ciò ha ingenerato un ritorno al passato, ossia una rivalutazione da parte della giurisprudenza del disposto dell’art. 2236 c.c., onde fare riemergere una distinzione, in termini di graduazione della colpa che, sebbene in ambito penale si attagli alla dosimetria della pena (art. 133, n.° 3 c.p.), comunque risulta utile nella ricostruzione della disciplina[5].
Il medico è un professionista intellettuale che non può vedere inibita la sua azione dalla costante minaccia della sanzione penale.
Orbene, alla luce di tali riflessioni, che guardano al sanitario come singolo, occorre allargare lo sguardo e prendere atto di come il fenomeno oggetto di attenzione sia molto complesso, in quanto il singolo medico, spesso, agisce sulla base dell’operato di altri sanitari che, in precedenza, hanno agito sul paziente.
Il fenomeno deve essere osservato nella sua complessità, in quanto il medico che coopera con altri vede la propria sfera giuridica influenzata dalla condotta di questi ultimi; sicché occorre osservare come un fatto di cui all’art. 590 sexies c.p. possa essere equamente distribuito in termini di responsabilità alla luce di un quanto disposto dall’art. 113 (cooperazione del delitto colposo)[6].
Il concetto di cooperazione guarda alla condivisione di più soggetti di un medesimo piano di azione, in quanto riferisce di una contribuzione di ciascuno di essi al conseguimento di un fine.
Discende da ciò che la cooperazione differisce da un concorso di cause indipendenti che giungono al medesimo fine. Tale distinzione è decisiva nell’economia della presente disamina, in quanto il fenomeno della responsabilità d’equipe, in ambito sanitario, può essere compresa solo avuto riguardo a tale sottile, ma determinate differenza.
La morte del paziente, ovvero la lesione da questi subita a seguito dell’intervento dei sanitari, sono eventi che possono ingenerarsi in ragione di un concorso di cause indipendenti, che non si poggiano su un medesimo spazio temporale (art. 41, comma 1, c.p.).
Sul punto può ingenerarsi un concorso indipendente di responsabilità in quanto vi è un passaggio tra le posizione di garanzia, sicché il secondo sanitario può essere esente da addebiti solo quando si dimostri che le sue funzioni erano del tutto inibite nel caso di specie, in ragione delle mancanze poste in essere dal precedente garante, sicché ad impossibilia nemo tenetur.
In questo caso non vi è cooperazione, in quanto manca un elemento essenziale, ossia la condivisione del rischio afferente l’attività svolta.
Il nucleo essenziale della disciplina dettata dall’art. 113 c.p. risiede proprio nella compresenza in un medesimo contesto di più soggetti che, in ragione della funzione incriminatrice svolta dalla disciplina concorsuale ex artt. 110; 113 c.p. condividono la pena prevista dal medesimo reato posto in essere dai correi.
Orbene, quando il sanitario coopera con altri pone in essere una frazione della condotta e la sua azione è fondamentale, in quanto deve guardare a ciò che è stato ed osservare ciò che avverrà nel passaggio di consegne ad altro soggetto, mantenendo una azione orientata a logiche di prudenza, diligenza e perizia nel mentre opera sul corpo del paziente.
In ciò la responsabilità dell’equipe medica che è una delle più classiche esemplificazioni della cooperazione che involge nel penalmente rilevante quando viene meno la vigilanza sull’operato altrui.
La simultanea presenza di più soggetti in sala operatoria è aspetto fisiologico nella conduzione di interventi volti a curare il paziente dalla patologia precedentemente diagnosticata.
In sala operatoria si osserva la presenza di una molteplicità di professionalità che si alternano a vicenda durante tutto l’incedere dell’intervento, sotto la supervisione del capo equipe (ossia il primario – dirigente di reparto).
Orbene, questo complesso intreccio può ingenerare una responsabilità di matrice concorsuale, quando si enucleano mancanze che attengono alla violazione di regole cautelari che, a livello generale, caratterizzano la conduzione di un intervento.
Nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso (art. 113, comma 1 c.p.); ciò significa che la venuta meno di un sanitario a logiche cautelari, in sede di operazione, ingenera un coinvolgimento nella responsabilità di coloro che con questi hanno cogestito il rischio sotteso all’intervento terapeutico.
Non si tratta di una responsabilità oggettiva per fatto altrui, in violazione dell’art. 27 comma 1 Cost, bensì di un cooperazione colposa che trae fondamento nella omessa vigilanza posta in essere da un sanitario sulla condotta precedente o susseguente alla propria nel medesimo contesto.
Trattasi di responsabilità che si appunta per non aver vigilato sulla condotta altrui (esempio tipico è l’omesso conteggio delle garze prima della sottoposizione del paziente all’operazione e la conseguente dimenticanza di una garza all’interno del suo corpo, dopo aver suturato la ferita aperta nel corso dell’operazione chirurgica).
Il necessario controllo di tutti i passaggi dell’operazione attiene alla fisiologica presa di atto di ciascun sanitario dell’operato altrui, nei limiti della generale conoscenza medica.
In buona sostanza la disciplina di cui all’art. 113 c.p. limita il principio del legittimo affidamento, ma non lo elimina del tutto, giacché il singolo sanitario può essere considerato esente da ogni addebito sol che si dimostri che l’errore posto in essere da altra professionalità intervenuta nel contesto operativo sia stato frutto di una mancanza di perizia specialistica.
Il singolo è chiamato ad intervenire per sopperire a mancanze poste in essere dalla precedente posizione di garanzia, nei limiti di una normale valutazione che si attaglia a colui che possiede il sapere medico (infermieristico; ostetrico) in generale.
Laddove vi è sapere iper-specialistico vi è legittimo affidamento, ossia necessità che il singolo sanitario possa fidarsi del corretto operato della professionalità che lo precede, senza essere chiamato ad intervenire, salvo il compimento di macroscopici errori.
Simile ragionamento consente di isolare la posizione del capo equipe, il quale è al vertice della squadra che pone in essere l’intervento ed assume un ruolo di garanzia di matrice apicale.
Onde evitare l’ingenerarsi di responsabilità per la mera posizione, occorre sottolineare come anche il primario che conduce l’operazione possa chiamarsi fuori da logiche di responsabilità, sebbene ciò risulti influenzato da un ragionamento più stringente.
Il primario dirige l’operazione, la sua cooperazione non è certamente paragonabile a quella del singolo infermiere o del singolo ferrista, giacché egli dirige l’infermiere ed il ferrista nella conduzione della dinamica operatoria.
Posto che il diritto penale rifugge logiche presuntive che inficiano il corretto dispiegarsi dei suoi principi generali (tra questi l’offensività del fatto commesso artt. 13, 25, comma 2, 27 commi 1 e 3 Cost), per quanto si possa dire che il primario non può non sapere cosa si sta facendo in sala operatoria, di certo questi non può essere chiamato a responsabilità ex art. 113 c.p. quando la condotta di colui con cui coopera fuoriesce da logiche di governabilità.
Il fenomeno in esame è talmente complesso che involge, come detto, una molteplicità di piani. Particolarmente interessante è il profilo della colpa di assunzione che guarda alla figura del medico specializzando.
Questi è medico in fase di formazione, il quale vive della praticità dell’insegnamento posto in essere da coloro che hanno la responsabilità di formarlo nella branca medica oggetto di specializzazione.
Tale figura non è esente da responsabilità quando assume su di sé un rischio operatorio, sottovalutando, in ragione della inesperienza, le difficoltà del caso oggetto di attenzione.
Al profilo della colpa di assunzione si associa la logica della cooperazione colposa quando lo specializzando viene lasciato solo durante il compimento dell’operazione, ovvero si omette su di egli una corretta vigilanza.
Quanto detto dimostra che la professione medica è arte complessa nonché strumento posto a presidio del diritto alla salute (art. 32 cost), sicché risulta fisiologico che l’ordinamento giuridico, il quale tende alla razionalità delle condotte umane, incanali tale branca dell’azione umana al rispetto di regole cautelari nell’interesse della persona (il paziente), la cui violazione comporta l’effetto giuridico della sottoposizione a pena (art. 27, commi 1 e 3 Cost).
Avv. Pierandrea Fulgenzi
Note:
[1] In merito al fenomeno della causalità omissiva ed alle sue implicazioni in punto di accertamento si veda www.intell-attuale.it/causalita-omissiva-e-organizzazioni-complesse
[2] Per una disamina del problema afferente la metodologia di accertamento del nesso causale, alla luce della causalità scientifica, si veda Cass. Sez. Un. 11.09.2002, n.° 30328 Franzese.
[3] La giurisprudenza inizialmente riteneva la legge n.° 189/2012 applicabile ai soli casi di imperizia; in un secondo momento, con le pronunce Cass. n. 47289/2014 e Cass. n. 23282/2016, si è affermata l’applicabilità della norma a tutti i casi di colpa generica. Successivamente è intervenuta la legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24), che ha introdotto la previsione di cui all’art. 590-sexies c.p. Tale norma ha eliminato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave. L’art. 590 sexies c.p. prevede la non punibilità del sanitario ogni qualvolta lo stesso rispetti le linee guida, che risultino adeguate alla specificità del caso concreto, nelle sole ipotesi di imperizia, vale a dire di violazione delle regole dell’ars medica.
[4] Le prime applicazioni dell’art. 590-sexies c.p. hanno determinato, in seno alla giurisprudenza di legittimità l’emersione di orientamenti confliggenti. Secondo una prima pronuncia (Cass. Sez. IV 20.04.2017, n.° 28187 – Tarabori) si ha non punibilità se in giudizio si fa questione d’imperizia, se il sanitario ha rispettato le linee guida e se, nel caso concreto, non vi erano ragioni per discostarsene. Secondo altra pronuncia (Cass. Sez. IV 19-31.1.2017, n.° 50078 – Cavazza), si ha non punibilità quando l’evento è causato da imperizia, lieve o grave, nella fase esecutiva delle linee guida. Per dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite (Sent. 22.02.2018, n.° 8770 – Mariotti), le quali affermano che si ha non punibilità quando l’evento è causato per imperizia lieve nella fase esecutiva delle linee guida.
[5] Lo scontro in giurisprudenza, circa la corretta delineazione dello statuto penale della responsabilità medica, è stato intenso. La soluzione cui sono pervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza del 22.02.2018, n.° 8770 Pres. Canzio, in un eterno ritorno, sembra guardare all’art. 2236 c.c., sempre più visto come norma contenente un principio di razionalità ed una regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito dell’imperizia. Sul punto si veda: Le Sezioni Unite salvano la rilevanza in bonam partem dell’imperizia “lieve” del medico, di Lucia Risicato, in Giurisprudenza Italiana; UTET GIURIDICA – Aprile 2018, pp. 948 – 954.
[6] Per un approfondimento della tematica afferente la cooperazione colposa, in generale, al di là delle implicazioni in ambito sanitario si veda: I SISTEMI DEL DIRITTO collana diretta da F. CARINGELLA – M. FRATINI – A. SALERNO – IL SISTEMA DEL DIRITTO PENALE, Vol. n.° 03, Le forma di manifestazione del reato, DIKE GIURIDICA ED. 2017 – pp. 130 – 139.