Il duello intellettuale tra Hobbes e Kant continua a caratterizzare la scena internazionale. Nella stagione in cui la latente crisi del multilateralismo è divenuta ormai esplicita sarà opportuno un esame della traiettoria di questa dimensione delle relazioni internazionali nel XX secolo ed in questo scorcio del XXI. In altri termini, come si è arrivati all’attuale situazione del “tutti contro tutti”.
Tale ricerca non può prescindere dall’analisi dei numerosi equivoci che hanno accompagnato un percorso contrassegnato dalla classica dicotomia tra realtà e rappresentazione cioè tra interessi concreti e valori enunciati. Riserve mentali e double standards hanno infatti costellato tale percorso in cui Imperi egemoni e Nazioni emergenti hanno cercato nel metodo e nel sistema multilaterale uno strumento complementare all’approccio bilaterale o unilaterale, al dilemma tra power politics e balance of power, tra impatto della globalizzazione e costanti della geopolitica.La traccia descrittiva passa attraverso tre momenti: il contesto storico e politico delle origini, l’evoluzione istituzionale e tematica, le prospettive.
Dopo le embrionali esperienze ottocentesche dei grandi Congressi di Vienna (1815), Parigi (1856), Berlino (1878) sugli assetti europei e balcanici, il contesto storico-politico delle origini coincide con l’inizio del XX secolo e le conferenze dell’Aja del 1899 e 1907, promosse dallo zar Nicola II e dal Presidente progressista Theodore Roosevelt, con le quali si ricercava un possibile punto di equilibrio tra promozione della pace (strumenti di risoluzione delle controversie, creazione della Corte Permanente di Arbitrato, divieto dell’uso della forza per il recupero dei crediti) e regolamentazione delle guerre sulla scia della Convenzione di Ginevra del 1864 (interdizione di certe categorie di esplosivi, trattamento delle popolazioni civili, rispetto della neutralità, regole della guerra marittima, etc.). I Trattati del 1899 e del 1907 non prevedevano strutture organizzative, bensì un’ ulteriore Conferenza di verifica fissata per il ….1914!
Tali lodevoli sforzi sfociarono infatti nella catastrofe della Prima Guerra Mondiale. Al termine di quest’ultima, ancora un Presidente americano, il democratico Woodrow Wilson proponeva a Versailles la creazione di una Società delle Nazioni, il cui Statuto contemplava un organo plenario (l’Assemblea dei 54 Stati membri) ed uno ristretto (un Consiglio con 5 membri permanenti e da 4 a 9 non permanenti), una Corte Internazionale di Giustizia ed una costellazione di Agenzie ed Organismi specializzati (per la tutela del lavoro, della salute, della condizione femminile, per la lotta al traffico di schiavi, alla coltura ed al contrabbando dell’oppio, etc.). La Germania sconfitta ne era esclusa fino al 1926 così come l’URSS rivoluzionaria fino al 1935, per esserne entrambe piu’ tardi espulse, rispettivamente nel 1935 (ri-militarizzazione della Renania) e nel 1939 (attacco alla Finlandia). Giappone ed Italia, membri permanenti fin dall’inizio nel 1920, furono esclusi nel 1932 e nel 1937 a seguito delle invasioni della Manciuria e dell’Etiopia.
Wilson ottenne il Premio Nobel per la Pace nel 1919, ma il Senato eletto nel frattempo, a maggioranza repubblicana ed isolazionista, si espresse contro la partecipazione degli Stati Uniti al nuovo organismo. Secondo lo storico Walter A. Mc Dougall, Isolazionismo e realpolitik sono infatti storicamente due delle quattro varianti della politica estera americana; le altre due sono l’internazionalismo (leggi interventismo) liberale, da Franklin Delano Roosevelt a Clinton e Obama, ed il globalismo democratico, da Reagan ai neo-cons. Pertanto la SdN si rivelava funzionale alle posizioni dominanti dopo Versailles di due grandi Potenze, Gran Bretagna e Francia, le cui credenziali colonialiste ed imperiali – addirittura rafforzate dai nuovi Mandati nel Medio Oriente post-ottomano (Palestina/Transgiordania/Iraq e Siria/Libano) e sulle ex colonie tedesche in Africa e nel Pacifico – ne avrebbero minato la credibilità di garanti di un’Organizzazione la cui missione annunciata poggiava sui principi di pace, sicurezza, disarmo ed autodeterminazione dei popoli. Tali contraddizioni avrebbero infatti alimentato il revanscismo/revisionismo tedesco e le ambizioni imperiali del Giappone e dell’Italia.
Va osservato che l’influenza politico-militare, economico-finanziaria, culturale e mediatica – si definirebbe oggi smart power, combinazione di strong e soft power – esercitata sul piano bilaterale da Londra e Parigi in Europa e nel mondo (negli anni ’20 e ’30 la stragrande maggioranza dei 54 Stati sovrani membri della SdN era europea e latinoamericana) si traduceva facilmente nelle maggioranze in sede multilaterale: si tratta si un nesso cruciale per comprendere il peso delle gerarchie degli Stati sulle dinamiche del multilateralismo. Dinamiche che tuttavia spesso riservano sorprese ed imprevisti anche per effetto di errori di calcolo e di posizionamento: è quanto accadrà agli Stati Uniti a partire dagli anni ’50 e ’60 nella metamorfosi della membership delle Nazioni Unite – passata dagli iniziali 51 Paesi agli attuali 193 – per effetto della decolonizzazione in Asia ed in Africa (nonché di quella “tattica” nei Caraibi ed in Oceania), peraltro attivamente promossa da Washington a scapito delle Potenze coloniali europee fortemente indebolite alla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’attuale, esplicito rigetto del multilateralismo da parte degli Stati Uniti che lo avevano concepito sul piano sul piano globale e regionale – dalle Nazioni Unite alla NATO, dal dall’Organizzazione degli Stati Americani/OSA al WTO ed al NAFTA – covava da tempo in misura latente proprio per effetto della metamorfosi della membership e quindi delle maggioranze.
Il 1945 segna comunque, con la creazione dell’ONU, preceduta nel 1944 da quella delle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI, Fondo Monetario e Banca Mondiale) il momento culminante per affermare una governance mondiale della sicurezza e dello sviluppo ad opera dei vincitori del conflitto. L’internazionalismo liberale, con contenuti dirigisti tipici del New Deal da sempre invisi ai Repubblicani e promosso ancora una volta da un Presidente democratico, ne ispirerà la struttura. Le vicende internazionali degli anni’20 e ’30 – segnatamente la grande Depressione contro la quale la Guerra Mondiale aveva offerto agli Stati Uniti un poderoso volano di crescita e di investimenti pubblici (il debito pubblico americano era balzato dal -4% del PIL nel 1940 al 120% nel 1945) – esigevano una terapia d’urto per la ricostruzione dell’Europa, per l’ampliamento dei mercati mondiali, per la stabilità dei cambi, per il passaggio da un’economia di guerra ad un’economia di pace. Va osservato che il nuovo ordine internazionale varato da Stati Uniti ed Unione Sovietica non partiva sotto i migliori auspici: qualunque fossero le gravi responsabilità delle classi dirigenti di Tokio e Berlino, l’impiego “sperimentale” delle armi nucleari sulle città giapponesi ed una massiccia pulizia etnica di 12 milioni di tedeschi espulsi dai territori dell’ Est europeo proprio in quelle stesse settimane rispondevano piuttosto ai criteri hobbesiani e machiavellici della realpolitik che ai valori kantiani del “Progetto per una pace perpetua”.
Il Giappone sarà ammesso nel 1956 (l’Italia l’anno prima) e le due Germanie soltanto nel 1973. Pertanto i 5 vincitori della Guerra non nascondevano una reciproca diffidenza, dotando del potere di veto i propri seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza, ma comunque affiancavano all’Assemblea Permanente dei 51 Stati membri iniziali una serie di organismi (l’ECOSOC) e di Agenzie e Programmi (FAO,UNESCO, OMS, UNICEF, UNDP e più tardi UNCTAD ed UNIDO) volte a promuovere la collaborazione nelle aree dello sviluppo economico, della sicurezza alimentare, della scienza e dell’educazione, della sanità, dell’ infanzia, etc. quali dimensioni di una governance interdisciplinare ed inclusiva. Nel 1947 veniva creato anche il GATT quale foro per lo sviluppo degli scambi, per contenere il protezionismo ed, al tempo stesso, per tutelare gli interessi delle posizioni dominanti sui mercati.
Questa maestosa architettura globale doveva ben presto incontrare tre fattori frenanti che ne avrebbero gradualmente ridimensionato la missione e la visione: la Guerra Fredda, la decolonizzazione e, a partire dalle crisi monetarie e finanziarie degli anni ’70 e ’80, la globalizzazione finanziaria basata sulle dinamiche dei movimenti dei capitali, dei mercati finanziari, del crescente indebitamento, pubblico e privato, e degli investimenti diretti.
L’evoluzione del sistema multilaterale ha rispecchiato a partire dal 1948-49 la profonda frattura fra le due Superpotenze vincitrici della II Guerra Mondiale in Europa ed in Estremo Oriente. Il multilateralismo si articolava così in sottosistemi regionali, con forte valenza strategica ed antagonistica. Il CdS dell’ONU veniva paralizzato dai veti incrociati dell’ URSS e delle Potenze occidentali sui temi della sicurezza (rapporti arabo-israeliani, invasioni dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, Vietnam, Afghanistan, etc.), mentre i compiti della stessa ONU sul terreno economico e sociale si diluivano nel confronto con le IFI e la competizione commerciale. In ogni caso le gerarchie tra le Nazioni si accentuavano di pari passo con le inevitabili sovranità limitate.
In Europa, la creazione della NATO quale sistema di sicurezza contro l’espansionismo sovietico complementare al varo del Piano Marshall (European Recovery Program/ERP, antesignano della futura OCSE) produsse la speculare nascita del Patto di Varsavia e del Comecon. La divisione della Germania si cristallizzò e la Francia promosse dal canto suo nel 1950 la creazione della CECA per reintrodurre la Repubblica Federale nel circuito della ricostruzione e della crescita attraverso il nevralgico settore strategico della carbo-siderurgia. Analogo tentativo nel settore del riarmo tedesco e della difesa europea fallì tuttavia nel 1954 per l’opposizione di una maggioranza “sovranista” dell’Assemblea Nazionale francese al progetto della CED. Il sovranismo francese si manifestava nuovamente nel 1966 nell’uscita di Parigi dalla struttura integrata della NATO per contrasti con Washington sulla gestione e l’impiego del deterrente nucleare. Il varo della CEE e dell’Euratom nel 1957 avviava il processo di un mercato unico, con politiche agricole e commerciali comuni, poggiante su un delicato equilibrio tra approccio intergovernativo classico e quello sovranazionale e non privo di passaggi critici (politica francese della “sedia vuota” tra il 1965 ed il 1967. In Estremo Oriente, la frattura si concretizzava ancor più vistosamente nel successo comunista in Cina nel 1949 e nei corollari delle guerre di Corea (1950-53) e di Indocina che i francesi erano costretti ad abbandonare nel 1954. La successiva guerra del Vietnam del 1963- 75 ne fu il lungo epilogo.
La fine degli Imperi coloniali europei, già soggetti a forti tensioni indipendentiste dopo la Prima Guerra Mondiale soprattutto in Asia (India britannica, Indocina francese, Indonesia olandese), fu accelerata dai nuovi equilibri di potenza scaturiti dalla Seconda. Stati Uniti ed URSS esercitarono in tal senso una spinta convergente, tesa ad estendere la rispettiva influenza sui nuovi soggetti statuali che via via venivano ammessi al sistema delle Nazioni Unite. La svolta decisiva fu impressa dall’indipendenza dell’India britannica , sia pur con modalità cruente e destabilizzanti con la sua partizione in ben quattro Stati: India, Pakistan, Birmania/Myanmar, Ceylon/Sri Lanka. La stessa India, l’Indonesia (indipendente dal 1949 dopo una guerra di liberazione dai Paesi Bassi durata tre anni), l’Egitto (dopo la rivoluzione repubblicana e nazionalista del 1952 che aveva rovesciato la monarchia filobritannica) e la Jugoslavia dopo lo strappo del 1948 davano vita tra il 1955 ed il 1961 al Movimento dei Non Allineati. Rifiutando le logiche del confronto Est-Ovest, quest’ultimo portava nelle istanze multilaterali le aspettative e le rivendicazioni economiche di un nuovo confronto Nord-Sud sul terreno del finanziamento dello sviluppo, dei trasferimenti di tecnologia, del miglioramento dei terms of trade tra materie prime e prodotti industriali. A tal fine nascevano negli anni ’60 l’ UNCTAD e l’UNIDO che, in sinergia con la Banca Mondiale e le Banche Regionali di Sviluppo (Interamericana, Asiatica ed Africana) contribuivano alla crescita ed alla modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo ed alla formazione delle loro classi dirigenti, con risultati eterogenei e differenziati.
Gli anni ’70 vedevano nuovi shocks alterare la tenuta del sistema multilaterale: nell’Occidente industrializzato, lungo l’asse Nord-Sud, all’interno dell’asfittico ed autarchico sistema sistema sovieto-centrico. La fine nel 1971 del gold exchange standard, creato a Bretton Woods nel 1944 e ruotando attorno alla convertibilità oro-dollaro cui le altre valute erano agganciate, preludeva al primo shock petrolifero del 1973 all’indomani della guerra del Kippur. Venivano alimentati conseguenti, vistosi squilibri nelle bilance dei pagamenti correnti tra Paesi importatori ed esportatori di greggio, con i surplus di questi ultimi, i relativi movimenti dei capitali, l’espansione dei mercati finanziari e le dinamiche del debito: degli Stati (ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud), dell’universo corporate con la febbre delle fusioni ed acquisizioni e le conseguenti “bolle”, dei privati per mutui e consumi. Le Istituzioni di Bretton Woods ripiegavano su compiti di drastica stabilizzazione dei Paesi debitori, soprattutto latinoamericani ed asiatici, attraverso le severe ricette del cosiddetto Washington consensus. Dal canto suo l’Occidente industrializzato ricercava faticosamente dal 1975 attraverso il G7 meccanismi di concertazione monetaria e finanziaria e di sostegno al commercio internazionale anche per frenare “l’esuberanza” del Giappone e della Germania in materia di “surplus”: con l’aggiunta della Cina oggi il tema è nuovamente di attualità dopo 40 anni….
La rivoluzione thatcheriana-reaganiana degli anni ’80 segnava l’avvio dell’arretramento dello Stato dalla gestione dell’economia (deregulation, privatizzazioni, tagli fiscali e del welfare) e l’avanzata prorompente del mercato nella sua dimensione interna e soprattutto internazionale: il multilateralismo, poggiante per definizione sulla visione politica ed il ruolo degli Stati, ne avrebbe più tardi inevitabilmente risentito.
L’implosione dell’Unione Sovietica e del suo sistema in Europa (cui si contrappone la metamorfosi economica del comunismo cinese), preceduta dalla fulminea riunificazione tedesca, modificavano radicalmente le coordinate del rapporto Est-Ovest.
All’euforia americana per l’indubbio successo strategico, che lasciava vagheggiare la fine della Storia ovvero un mondo “unipolare”, seguivano tre sviluppi che segneranno le dinamiche degli ultimi 25 anni e la critica situazione attuale: gli allargamenti della NATO ad Est, il Trattato di Maastricht ed i paralleli ampliamenti dell’Unione Europea nella stessa direzione, la conclusione dell’Uruguay Round e la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Si tratterà di iniziative solo apparentemente multilaterali ma in realtà animate da interessi e propositi in prospettiva fortemente conflittuali, che ruotano attorno ai tre protagonisti degli attuali squilibri: gli Stati Uniti, l’Unione Europea a trazione tedesca, la Cina.
Trascurando deliberatamente il potenziale costruttivo dell’OSCE di Vienna – ponte naturale tra la dimensione euro-atlantica e quella eurasiatica nelle aree della sicurezza e della collaborazione energetica, industriale ed infrastrutturale – l’allargamento della NATO ad Est ha alimentato la reazione della Russia, ridimensionata ma tuttora dotata di un devastante arsenale nucleare e di una capacità di intervento convenzionale, dimostrato in Siria ed in Ucraina, e diplomatica manifestata nella delicata partita tra l’Iran, le Petro-monarchie sunnite, la Turchia e Israele. Altrettanto dicasi delle forzature praticate nel CdS dell’ONU per gli interventi contro la Serbia nel 1999, l’Irak nel 2003, la Libia nel 2011, con interpretazioni unilaterali delle relative Risoluzioni circa l’applicazione delle misure coercitive previste dal Capitolo VII dello Statuto.
La stravagante architettura di Maastricht (“la moneta senza Stato”) , che ha accentuato ed inasprito le asimmetrie economiche e gli squilibri politici nell’Unione, evidenzia penosamente l’assenza di una politica estera, di sicurezza e di difesa. Il mercantilismo tedesco, definito da taluni “sindrome della Grande Svizzera”, con i suoi surplus commerciali e le politiche procicliche di rigore finanziario dopo i costi della riunificazione ed il dissesto delle proprie banche tra il 2008 ed il 2013, è oggetto da 15 mesi dell’offensiva di Trump sul tema, annoso ed agitato anche da Amministrazioni democratiche, del burden sharing della NATO e su quello, più recente, delle esportazioni di acciaio e di auto.
Dal canto suo la Francia, dopo essersi inserita nella caotica stagione delle Primavere arabe con improvvide iniziative in Libia e Siria, tenta velleitariamente di proporsi quale capofila di una identità europea di sicurezza e difesa del dopo-Brexit, poggiante sul proprio status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, su una capacità nucleare, su una forte industria della difesa e sulla propria tenace proiezione militare nell’Africa saheliana e subsahariana.
Il multilateralismo è in vistoso ripiegamento all’interno dell’Europa (Visegrad, Brexit, immigrazione e dimensione mediterranea dell’Unione), nel rapporto transatlantico e su quello eurasiatico; altrettanto dicasi del suo surrogato, la globalizzazione. Illuminante in proposito la ricerca di Robert Kaplan, The revenge of geography, che evidenzia crudamente il ritorno della geopolitica, delle Nazioni e dei nuovi blocchi commerciali regionali.
Ma è forse sugli effetti a medio termine del WTO rischia il collasso. La vertiginosa crescita export oriented della Cina, poggiante anche sul serbatoio di risorse umane e materiali dell’ASEAN, è stata promossa dagli anni ’90 da investimenti americani, giapponesi, coreani, britannici, tedeschi. Essa si è auto-alimentata dai colossali surplus commerciali ed ha beneficiato dell’apertura dei mercati mondiali e della globalizzazione tecnologica e finanziaria avviata nell’era Thatcher-Reagan. Oggi il regime comunista di Pechino è il campione del free trade e del più grande programma mondiale di investimento infrastrutturale ed energetico attraverso one road, one belt. Esattamente quello che avrebbe dovuto fare l’Europa 25 anni fa, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, attraverso l’OSCE.
Su tale sfondo si stagliano gli Stati Uniti e la sindrome del declino evidenziata dallo slogan “trumpiano” make America great again, accompagnati dal consueto aumento del bilancio della Difesa ormai a livelli stratosferici. Indipendentemente dall’aggressività del linguaggio e delle “non iniziative” del Presidente americano (Corea del nord, Iran, Europa, Cina, Russia, Ambasciata a Gerusalemme e “muro messicano”), due fattori oggettivi sono all’origine del pericoloso malessere americano. La governance del vagheggiato mondo unipolare si è rivelata più complessa di quanto immaginato, ma è forse sul versante interno che le sfide sono ancor più impegnative.
Al cronico doppio disavanzo, federale e commerciale, coperto almeno sinora dal ruolo del dollaro quale moneta di riserva, ed alle crisi finanziarie e bancarie degli ultimi 18 anni (dot-com del 2000-2001 e subprime del 2007-2008) si aggiunge la contraddizione tra gli interessi dei propri colossi multinazionali con i loro processi di off shoring (nel NAFTA, in Asia, in Europa) e la pressione dei propri partners commerciali – in primis Cina e Germania, ma anche Giappone, Corea, Canada – sul tessuto manifatturiero degli Stati industriali della old economy che hanno portato Trump alla Casa Bianca. Il secondo fattore della sindrome è costituito dalla circostanza che gli ultimi 4 Presidenti sono stati in forte reazione al predecessore, con caratteristiche divisive al di là del naturale antagonismo del gioco politico: Clinton rispetto a Reagan e G.H. Bush, G.W. Bush rispetto a Clinton, Obama rispetto a G.W. Bush, Trump rispetto a Obama. Si tratta di una involuzione aspramente interpretata dal Congresso e ormai temperata con difficoltà dai tradizionali ammortizzatori mainstream della finanza, dei think tanks e dei media.
Infine le prospettive. Malgrado le diffuse riaffermazioni di sovranità, che peraltro le grandi e medie Potenze hanno sempre praticato, e l’arretramento del multilateralismo, quest’ultimo resta una dimensione necessaria ed obbligata delle relazioni internazionali. Affinché il suo contributo sia parte della soluzione e non del problema sono convinto che sia necessario:
- evitare quella retorica celebrativa e fuorviante che ne ha fatto una nuova ideologia, contraddetta troppo spesso dalla realtà, per l’affermazione di un diritto naturale, anticamera di un universalismo globalizzante avverso al sistema “westfaliano” degli Stati- Nazione;
- diffidare della sua strumentalizzazione ad opera di entità, autoreferenziali e talora anonime, proliferate negli ultimi decenni e fonte di disinformazione nelle situazioni di crisi e di conflitto;
- valorizzarne il potenziale di pragmatismo e gradualità nella composizione dei conflitti e nella ricerca di equilibrio tra gli interessi degli Stati;
- il riconoscimento delle gerarchie, sia pur in evoluzione negli ultimi 70 anni, dalla fine dell’Eurocentrismo al Secolo americano fino all’ascesa dell’Asia;
- prendere atto di una sua vigorosa dimensione regionale(ASEAN, Mercosur, Shanghai Cooperation Organisation, Unione Africana/NEPAD) o funzionale (OPEC, BRICS);
- evitare che il multilateralismo si traduca in una pigra “esportazione di responsabilità” per classi dirigenti, politiche ed economiche, rinunciatarie e/o incapaci, nell’illusione di trovare risposte alle proprie fragilità interne e rispetto nei consessi internazionali: sarebbe infatti puerile attendere che la tutela dell’interesse nazionale venga assicurata da altri in un’arena internazionale competitiva.
Sergio Vento
diplomatico, già ambasciatore italiano a Washington, Parigi e Belgrado