Le cronache politiche di questi giorni, che narrano dell’ennesima crisi di governo della storia repubblicana italiana, offrono lo spunto per una riflessione forse per niente originale, ma di particolare interesse nello scenario attuale: la dicotomia fra rappresentatività, equità e tutele garantite da un sistema elettorale proporzionale, da una parte, e le possibilità concrete di mettere in atto misure politiche di ampio respiro, che abbiano un orizzonte programmatico di medio-lungo periodo, dall’altra. Si è scritto e detto molto al riguardo, le posizioni in campo sono note, il dibattito sul tema ha radici antiche ma connotati tutt’altro che banali.
Le ragionevoli argomentazioni dei sostenitori dei sistemi elettorali proporzionali si scontrano sovente con le brutali contingenze della quotidianità politica: per quanto le vicende della Prima Repubblica (tipicamente contraddistinta da un sistema proporzionale) dimostrino infatti che, in presenza di presupposti e di personalità politiche completamente diversi da quelli attuali, sarebbe possibile conciliare rappresentatività e pianificazione politica fattiva, non si può non notare come l’estrema instabilità politica delle democrazie non presidenziali contemporanee si riveli ancora oggi un fenomenale strumento di resistenza nelle mani di gruppi extra-politici di potere nei confronti di ogni possibile forma di cambiamento dello status quo.
Venendo al punto: può davvero un sistema maggioritario che affidi su basi il più possibile eque e democratiche (magari con la previsione del cosiddetto “doppio turno”) un mandato di cinque anni a una forza politica omogenea e compatta avere più controindicazioni o essere più dannoso di un sistema che impone di fatto di navigare a vista e muoversi per compromessi, quasi sempre ad impatto marginale? Nel momento in cui chiaramente l’orizzonte temporale di un’azione politica seria e minimamente sensata dovrebbe essere di medio-lungo periodo (cinque anni sono persino pochi).
Un recente approfondimento sul tema della Belt and Road Initiative cinese fornisce l’occasione per analizzare un’illuminante dichiarazione del leader Xi Jinping: in risposta alle polemiche, spesso pretestuosamente alimentate dal fronte atlantista, sulla assenza di profili di democraticità nella forma di governo cinese, lui candidamente faceva notare come non si trattasse di spregio per la democrazia ma di una esplicita mancanza di fiducia nel modello di democrazia rappresentativa occidentale. Tale modello a quelle latitudini viene infatti ritenuto profondamente inefficace, in quanto inidoneo a produrre leader di qualità e visioni strategiche di lungo periodo e di conseguenza facilmente manipolabile da poteri oligarchici interni o esterni. Sembra difficile dargli torto su questo punto. La Cina stessa fornisce l’esempio perfetto di quanto sostenuto dal suo leader: un Paese che sta dimostrando l’importanza di compiere pianificazioni politiche anche ultra-decennali, e che può permettersi di farlo solo ed esclusivamente grazie alla stabilità politica garantita dal sostanziale azzeramento del processo democratico.
Con ciò non si vuole certo strizzare l’occhio a forme di forme di governo dittatoriali, bensì rilanciare alcune legittime perplessità riguardo a un sistema elettorale come quello proporzionale che di fatto accentua e istituzionalizza la già profonda instabilità che caratterizza la democrazia rappresentativa. Cosa ancor più grave se si considera il panorama europeo post-Maastricht, in cui le leve ed i margini di intervento sul piano politico nazionale sono stati sensibilmente ridotti. Dunque, se oltre a tutti i vincoli economici, globali sovranazionali, istituzionali, si aggiunge sugli Stati nazionali il fardello della sistematica ingovernabilità (proprio appunto dei sistemi elettorali proporzionali), come si può immaginare una progettualità politica minimamente seria ed efficace? Come si può pretendere che una qualsiasi forza politica affronti le titaniche sfide che si stagliano all’orizzonte ragionando su una prospettiva meramente contingente, poco più che balneare, come sono di fatto costretti a fare i leader contemporanei? Esattamente sull’altare di cosa si starebbe sacrificando questa seppur marginale possibilità di porre almeno le minime condizioni per una continuità politica pluriennale? L’argomento è senza dubbio delicatissimo, perché la tipica deriva dei sistemi maggioritari è quella, per nulla auspicabile, del bipolarismo (o ancora peggio del bipartitismo sul modello americano, tomba di ogni sana dialettica politica multipolare).
Ma una legge elettorale che garantisse la più ampia rappresentanza politica possibile in Parlamento (quindi soglie di sbarramento abbassate al minimo) e allo stesso tempo conferisse (pur con tutte le note controindicazioni del caso, prima fra tutte la sproporzione fra potere attribuito alla forza vincitrice e consenso popolare della stessa) un mandato politico di prospettiva realmente quinquennale a un unico soggetto, non sarebbe forse un male minore rispetto alla drammatica e paralizzante situazione attuale, in cui si susseguono anni e governi in un clima di gossip politico-mediatico e campagna elettorale permanenti e in cui l’unica azione politica pluriennale che viene coerentemente attuata, fra un rimpasto e l’altro, può essere solo quella di soggetti del tutto privi di rappresentatività democratica? Non è forse la “funzione difensiva” attribuita ai sistemi proporzionali (limitare i potenziali danni – nell’ottica dei soggetti politici minoritari – che una forza di maggioranza relativa potrebbe compiere anche in assenza di un sufficientemente ampio mandato popolare) causa di danni ben peggiori (si veda il punto precedente) di quelli che essa stessa dovrebbe servire a scongiurare? Ha quindi davvero senso essere così religiosamente proporzionalisti? È così blasfemo e contro-intuitivo ipotizzare che, a conti fatti, un sistema elettorale proporzionale calato nello scenario politico contemporaneo presenti maggiori profili distorsivi rispetto a un maggioritario opportunamente predisposto e bilanciato?
Guido Carlomagno – Ph.D. IAASP